L'isola delle capre

materiale iconografico


di Ugo Betti

regia di  

anno 1965

con
Adriana Asti
Luisa Rossi
Edda Albertini

Commento
Dramma in tre atti di Ugo Betti, scritto nel 1948 e rappresentato per la prima volta a Roma nel 1950. In una casa in rovina, circondata da una brughiera, vivono tre donne sole: Agata, la figlia Silvia e la cognata Pia. Intorno è la campagna bruciata dal vento e resa arida dalle capre che divorano tutto. Agata e il marito erano arrivati qui, abbandonando la città e i suoi compromessi, con il desiderio di prendersi una rivincita contro il mondo, e di stare soli con le loro idee, la loro tenerezza e la loro sincerità. Illusione: «La giornata sempre uguale, la mancanza di diversivi. Forse anche i sentimenti, sempre soli con se stessi, si stancano. Si consumano, restano vuoti». E così un giorno il marito di Agata è fuggito, senza dare piú notizie di sé. A rompere ora questa solitudine ecco sopraggiungere Angelo: uno strano individuo, sfacciato, remissivo, furbo. Egli sa delle tre donne, ma soprattutto di Agata: attraverso le descrizioni del marito di lei, con il quale, come prigioniero di guerra, ha passato lungo tempo tra i reticolati, ha sorpreso «tutta» Agata, anche nei suoi pensieri più nascosti e nelle sue intimità. La presenza di quest'uomo scuote le tre donne che la snervante solitudine e l'affocata atmosfera avevano inchiodato in una attesa senza speranza. Ad una ad una esse cadono in dominio del forestiero. Fino a quando, dopo l'inevitabile alternarsi di gelosie e rassegnazioni, la tragedia esplode nel modo piú impensato. Mentre Angelo scende in un pozzo, la scala gli scivola; le donne potrebbero salvarlo gettandogli una corda, ma dapprima esitano, poi assistono agli sforzi disperati di lui, infine alla sua agonia. E quando Pia e Silvia si allontanano, Agata rimane ferma, come impietrita; ormai egli è tutto suo: «Ora siamo noi due, e tutto è semplice. Tu non potrai certo andartene, e nemmeno io. Seguiteremo a chiamarci e a lottare per tutta l'eternità». È una specie di tragica veglia funebre al suo uomo e a se stessa. Pervaso da un erotismo sfrenato, il dramma si distingue per la linearità del soggetto: quasi un semplice fatto di cronaca; e per la mancanza di qualsiasi sottofondo ideologico: misteriosa o chiara, l'istanza di redenzione che è avvertibile negli altri lavori bettiani qui è assente. Si ebbe motivo, anche per questo, di parlare d'un ritorno al senso della tragedia primordiale, a un teatro che investe zone elementari della nostra umanità. E, su questa strada, si ritenne di situare questa «Isola delle capre» in un'Italia dove persistono profonde tradizioni precristiane. Le creature umane del dramma si aggirano, infatti, in un recinto senza vie d'uscite; attorte e straziate sotto il peso di una vita atroce, desolata, percorsa da febbrili sforzi per una riscossa dell'istinto.




Foto di scena